LINEA DI FUGA 1943-1944

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Sam Derry

Linea di fuga 1943-1944

Edizioni Qualevita, pp. 256, euro 10,00

 

Premessa

L’idea di tradurre The Rome Escape Line di Sam Derry, edito a New York nel 1960 e mai uscito in Italia, nasce da una collaborazione, rivelatasi negli anni assai feconda, tra il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma e il Liceo Scientifico Fermi di Sulmona, promotore della bellissima iniziativa Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail, marcia internazionale, inaugurata nel 2001 dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Da allora il nostro Istituto ha sempre partecipato con un congruo numero di appassionati studenti  fino a farne un appuntamento irrinunciabile nel calendario scolastico.
Camminando ogni primavera lungo gli stessi sentieri della Majella percorsi durante l’inverno 1943-44 dai prigionieri in fuga e dai perseguitati politici per guadagnare la libertà, ho avuto la possibilità, conversando con dirigenti scolastici e docenti, di confrontarmi con un nuovo modo di fare storia che mi ha condotto ad attivare nella mia scuola, sull’esempio di quella abruzzese, un Laboratorio di storia, all’interno del quale hanno via via preso vita diversi progetti accomunati dal tema “Memoria-Resistenza-Liberazione”. L’impresa di tradurre il diario di guerra di Sam Derry è uno di questi progetti che contribuisce ad arricchire la collana di traduzioni e pubblicazioni curate dal Liceo Fermi sulla storia e le storie di questo periodo. Le vicende narrate nel libro si svolgono proprio fra Roma e Sulmona: la fuga verso Roma del maggiore britannico parte dal campo di prigionia abruzzese dopo l’8 settembre 1943 e segna l’inizio delle sue incredibili avventure nella capitale, come amministratore (insieme a Mons. O’Flaherty “primula rossa del Vaticano” e al tenente Simpson) della British Organization, il cui scopo era offrire una rete di protezione ai numerosi ex prigionieri del Commonwealth in attesa dell’arrivo degli alleati.
Il progetto di traduzione, denominato familiarmente dai partecipanti “Progetto Sam”, si è svolto negli anni scolastici 2007-2010 ed ha coinvolto gli studenti delle classi del triennio del Liceo Scientifico del Convitto (in tutto 28), con la partecipazione determinante delle docenti di lingua inglese e di italiano. Nell’impostazione e nella metodologia esso ha voluto sperimentarsi come modello di didattica laboratoriale volta ad attivare nuovi contesti di apprendimento capaci di far interagire e integrare da un lato diversi saperi, dall’altro studenti di classi diverse, mettendo in campo risorse e strategie che consentissero di vivere la Storia come un campo aperto di indagine e di formazione: un modo non tanto di contrapporsi o sostituirsi allo studio tradizionalmente inteso, quanto di arricchirlo e motivarlo.
Ha preso così forma un modulo operativo articolato secondo diverse fasi e procedure. Attraverso il lavoro di piccoli gruppi, procedevano in parallelo la traduzione di singoli capitoli e la ricostruzione del quadro storico, con particolare riferimento a eventi, luoghi e personaggi che fanno da sfondo alla vicenda narrata nel libro e che caratterizzano i nove mesi di occupazione nazi-fascista a Roma nel 1943-44: l’armistizio e l’inizio della Resistenza l’8 settembre, la razzia al ghetto il 16 ottobre, lo sbarco ad Anzio il 22 gennaio, via Rasella e le Fosse Ardeatine il 22 e 23 marzo, la liberazione il 4 giugno, come pure luoghi significativi, quali Via Tasso e Regina Coeli.
Questo lavoro di approfondimento è stato condotto utilizzando diversi tipi di fonti: fonti cartacee (oltre al manuale, opere specifiche sull’argomento come L’inverno più lungo di A. Riccardi, Roma clandestina di Fulvia Ripa di Meana, La guerra in casa di B. Simpson o saggi critici come quelli di R. Graham sulla Civiltà Cattolica) e audiovisive (The Scarlet and the Black, film di Jerry London del 1983 sulla figura enigmatica di Mons. O’ Flaherty), ma anche testimonianze dirette, come un vivace incontro a scuola con il giornalista e scrittore Gian Paolo Pelizzaro che ha curato una ricerca sull’identificazione del quattordicesimo “martire della Storta” per la quale sono state utili anche le informazioni fornite da Sam Derry.
In quest’occasione si è potuto toccare con mano come la ricerca storica sia un processo dinamico, sempre passibile di rivisitazioni interpretative alla luce di acquisizioni documentarie nuove. Una visita al Museo di via Tasso e al Mausoleo Ardeatino e un sopralluogo presso alcune abitazioni private nelle quali si sviluppa il racconto del testo (con tentativi di interviste ai portieri per reperire notizie) ha consentito di percepire come la memoria si dipani lungo il tracciato delle vie della nostra città, nei luoghi della consuetudine e della quotidianità, offrendo anche strumenti critici di lettura del tessuto urbano. Mentre l’uso integrato di queste fonti aiutava a comprendere e sperimentare la complessità della storia, si svolgeva, in parallelo, la paziente e meticolosa revisione della traduzione del testo da parte delle docenti di inglese e di italiano supportate da un paio di valorosi e motivati studenti.
Si è voluto in questo modo, oltre che offrire un piccolo contributo alla ricerca storica, esperire e comunicare la “buona pratica” del Laboratorio di storia, nella convinzione che
“se conoscere essenzialmente è ricercare, anche l’apprendere nel suo esito finale, viene a coincidere con la ricerca. […] Spesso non sono i saperi scolastici che demotivano, ma le procedure di proposta e di assimilazione che negano la curiosità della mente. […] Poiché la realtà in cui viviamo è in incessante processo di trasformazione, e conoscenze e competenze subiscono un rapidissimo invecchiamento, è sempre più importante possedere, oltre le conoscenze in sé, le procedure attraverso cui procurarsi conoscenze e competenze.” (Atti del convegno della FNISM Didattica della storia dell’ ‘800 e del’900, Titivillus ed. 2005)
Mettere i ragazzi in condizione di interrogare il passato attraverso una simile strumentazione didattica li educa ad assumere la storia non come il regno del dogma e della necessità, bensì come il territorio delle ipotesi e delle scelte. In ultima analisi il luogo dove è possibile e auspicabile l’esercizio della libertà: la consapevolezza che si può entrare nella storia e non solo subirla e che il dialogo col passato può aiutare a capire il presente e costruire il futuro.
Silvia Fasciolo
coordinatrice del progetto

 

Prefazione

La pubblicazione di questo volume costituisce un ulteriore importante contributo recato dall’attività didattica e di promozione culturale che l’Associazione culturale “Il sentiero della libertà” e il Liceo scientifico statale Enrico Fermi di Sulmona stanno dando da anni alla salvaguardia della memoria e alla valorizzazione della storia della partecipazione popolare alla lotta non armata nella Resistenza in Italia centrale e che le Edizioni Qualevita raccolgono nella collana “E si divisero il pane che non c’era”. Stavolta l’iniziativa si è sviluppata in partnership con il Liceo scientifico del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II di Roma e con il Museo storico della Liberazione di Via Tasso in Roma.
Dalle ricorrenze del cinquantenario della Liberazione – con Anna Bravo, Antonino Drago, Giorgio Giannini, Lidia Menapace, Enrico Peyretti – cominciammo a parlare di lotta non armata e di resistenza civile (che però non sono esattamente la stessa cosa) suscitando stupore e talora ironia e persino rabbia tra i nostri interlocutori. Era un’esigenza maturata autonomamente in Italia – soprattutto in ambienti del movimento della nonviolenza e del comitato scientifico della Difesa popolare nonviolenta – e che aveva trovato una significativa corrispondenza nello studio di Jacques Sémelin, Sans armes face à Hitler. La resistance civile en Europe, 1939-1943 (poi edito in Italia nel 1992 da Edizioni Sonda, Torino), che però escludeva l’Italia perché riteneva che i tempi e i modi della Resistenza italiana facessero passare in secondo piano le esperienze di lotta non armata.
In realtà, l’identificazione del resistente con il partigiano combattente armato era radicata e profonda almeno quanto la convinzione che un’opposizione efficace all’occupazione nazista e al neofascismo di Salò e rasentava talora un vero e proprio pregiudizio quasi di tipo ideologico. Anche se, poi, la stessa legislazione per il riconoscimento delle qualifiche ai resistenti, uno squarcio era stata costretta ad aprirlo e, accanto ai partigiani combattenti (coloro che avevano partecipato ad almeno tre azioni militari), era stata costretta a riconoscere anche le figure dei patrioti (cioè coloro che nell’ambito delle formazioni partigiane avevano svolto un’attività in prevalenza non armata).
In tal modo, rimanevano fuori della scena della Resistenza una grande pluralità di soggetti – con un’elevata presenza femminile – che avevano promosso e svolto attività e corso rischi anche della vita al di fuori delle organizzazioni partigiane combattenti: propaganda politica, raccolta e trasmissione di informazioni politiche e militari, antisabotaggio e sabotaggio, boicottaggio civile ed economico, scioperi, produzione di documenti falsi e di stampa clandestina, varie forme di ospitalità e di assistenza a perseguitati politici, ebrei, renitenti alla leva e al lavoro obbligatorio, militari sbandati, prigionieri di altri paesi evasi, disertori tedeschi, ecc… E ciò aveva finito per costituire un limite oggettivo, favorendo la rappresentazione caricaturale della Resistenza unicamente come una guerra civile combattuta fra due minoranze violente ed armate ed assetate entrambe di sangue e di potere.
Per fortuna, nella coscienza civile e nella storiografia non si è ceduto alla pressione mediatica e al revisionismo storico più deteriore e – appunto – nel vissuto popolare e nella lotta non armata si sono rintracciate le condizioni e le ragioni per considerarla – nonostante l’aspetto di guerra civile e le durezze che comportò – anche come una lotta popolare di liberazione.
         Oggi, quindi, guardiamo alla realtà dell’occupazione nazista e della Resistenza secondo un orizzonte più vasto di quello che si riferisce ai componenti – partigiani o patrioti – delle formazioni partigiane e cerchiamo di comprendere il legame tra la Resistenza e la complessa stratificazione sociale della violenza inferta dai nazisti e dai fascisti alle popolazioni: deportazione e stragi, militari e partigiani, antifascisti e prigionieri evasi, ebrei e lavoratori coatti, civili sfollati e popolazioni sparse, ecc… E, per comprendere come a presiedere alle motivazioni della durezza degli occupanti e dei collaborazionisti fosse un’unica ispirazione, giova ricordare quella considerazione di Primo Levi sul fatto che la gerarchia di violenza e oppressione esercitate all’interno dei Lager fosse una metafora peggiorativa per crudeltà dell’organizzazione sociale dell’oppressione che veniva esercitata nella società fuori di esso. E ad essa fa da corrispondente la considerazione di Vittorio Emanuele Giuntella sul fatto che il nazismo (ma il fascismo non era troppo da meno)  fosse un regime nel quale vi era una spirale crescente di violenza che partiva dal più semplice atto di prevaricazione e di offesa alla dignità umana esercitata su una singola qualsiasi persona nella società per giungere – attraverso una graduazione del terrore – fino alle stragi e agli stermini.  E gli obiettivi delle occupazioni dei diversi paesi d’Europa nel corso della guerra – pur nelle diversificazioni di organizzazione istituzionale e di intensità – erano pur sempre tali da realizzare forme di strapotere e di arbitrio tali, che giungevano alla confusione e al ribaltamento del lecito e dell’illecito, del permesso e del vietato: per questo, la vita umana risultava molto spesso legata ad un filo e ad un caso.
Ciò significa che è necessario rivedere l’applicazione meccanica e dualistica all’intero corpo sociale dell’interpretazione dei sommersi e dei salvati tra i quali c’è un’indistinta zona grigia suggerita da Primo Levi. E’ necessario imparare a considerare una graduazione degli atteggiamenti e dei comportamenti quotidiani durante l’occupazione secondo una scala che va dal collaborazionismo all’opposizione antifascista armata e combattente.  Tra i due estremi non c’è solo passività e fuga dalle proprie responsabilità e non tutto è attesismo: il quadro di protagonisti che si muovono sugli scenari e sui teatri rurali e urbani è, in realtà, composito, articolato e molto promiscuo e presenta molte e complesse forme di lotta non armata o di resistenza civile (come anche la si definisce applicando meccanicamente e senza troppa riflessione una espressione che è stata coniata per una realtà che è molto diversa da quella italiana e che, anzi, programmaticamente – per ragioni solo in parte fondate – aveva escluso l’Italia dall’analisi).  E vale la pena di sottolineare che queste altre presenze di soggetti molteplici, accanto a quelle dei resistenti combattenti e delle vittime dell’occupazione e del collaborazionismo, era stata quasi sempre descritta, ricordata, talora apprezzata dalla stessa memorialistica partigiana, quella più a ridosso degli eventi e quella più recente, quando non si era limitata a narrare le sole azioni militari e le sole attività politiche ed aveva aperto squarci più o meno ampi sulle condizioni sociali e materiali delle popolazioni, non considerandole unicamente come testimoni passivi delle vicende.
Se non ci si riferisce a questi mutamenti di quadro e di prospettiva d’indagine storiografica, non si spiegano o comprendono le ragioni di fondo che rendono attuale – a cinquant’anni di distanza dalle edizioni britannica e statunitense – la pubblicazione della versione italiana di quest’opera. Né si colloca in maniera storicamente adeguata il suo contenuto.
La struttura della narrazione, qui più precisa e circostanziata, è già nota perché a questa si è ispirato il volume di William C. Simpson (A Vatican Lifline ’44. Allied Fugitives, aided by the Italian Resistence Foli the Gestapo in Nazi-Occuped Rome, Leo Cooper, London 1995) che con Sam Derry è uno dei protagonisti di questo libro, ma che aveva visto le sue memorie (più tardive) uscire in questa collana in traduzione italiana nel 2005 (La guerra in casa 1943-1944. La Resistenza Umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi). Simpson, in realtà, aggiunge piuttosto particolari delle sua diretta esperienza a quanto proprio questo libro gli aveva richiamato alla memoria. Una prima e sostanziale differenza, dovuta alle specificità delle sue esperienze, sta nel fatto che esse hanno avuto come riferimento prevalente la realtà rurale (Simpson) o quella urbana (Derry). E così, nella prefazione, Roger Absalom, il compianto maestro dello studio della “strana alleanza” tra contadine/i taliane/i e prigionieri britannici, l’aveva giustamente inquadrato nel contesto di quello straordinario e per tanti inatteso capitolo della storia delle popolazioni rurali italiane (A strange alliance. Aspects of escape and survival in Italy, 1943-45  L. S. Olschki, Firenze 1991).
. Nella narrazione di Sam Derry, essendo stato egli al centro dell’organizzazione complessa dell’opera di assistenza ai prigionieri britannici (e non solo), teatro e scenario degli eventi è soprattutto  la realtà urbana di Roma occupata con i suoi mille problemi di aggiramento delle reti poliziesche che il Sichereitdienst (servizio di sicurezza o SD) e la Sichereitdienst Polizei (polizia di sicurezza o SIPO) avevano tessuto a partire dal comando di Via Tasso 155, dove Herbert Kappler li comandava entrambi. Oggi, proprio grazie ai documenti degli archivi britannici, siamo informati meglio dell’organizzazione e delle funzioni di quel comando, al quale molti – e lo stesso Sam Derry – si sono riferiti identificandolo con il nome della GESTAPO (GEheime STAatsPOlizei), le cui competenze si confondevano con quelle degli altri due organismi, rispetto ai quali aveva una condizione subordinata.
La narrazione di Sam Derry – a volte con un fondo di sottile ironia ed autoironia che nelle memorie dei protagonisti britannici è spesso presente – ci fa percepire le molteplici dimensioni della rete di assistenza ai prigionieri britannici. Essa prese corpo dall’iniziativa di protagonisti di nazionalità diversi (britannici, irlandesi, svizzeri, italiani, …) e con ruoli sociali differenti (militari, ecclesiastici, personale di legazioni diplomatiche, civili – soprattutto donne – italiani, ecc…) e si caratterizzò per uno schema organizzativo e operativo efficace e, per le condizioni in cui operò, efficiente e flessibile, che rivelò in più occasioni di poter adattarsi a circostanze talora imprevedibili. Attraverso la figura dell’irlandese  monsignor Joseph Hugh O’ Flaherty, la rete era collegata con altre reti di protezione di altri ricercati e perseguitati (soprattutto ebrei), ma tra esse non vi furono altri contatti che avrebbero potuto produrre delle smagliature e mettere a rischio l’opera di tutti e di tutte, uomini e donne intelligenti, altruisti, generosi e coraggiosi. Ed emerge chiaramente da queste pagine come la spontaneità dello slancio solidale non cedette mai ad uno spontaneismo malaccorto e poco responsabile. 
L’attività dell’organizzazione si presenta come vera e propria opera di salvezza e non solo di ospitalità per i militari clandestini e fuggiaschi. Essa mise a frutto una capacità e una possibilità di agire che si fondava sull’addestramento e l’esperienza che avevano gli ufficiali coinvolti ad operare in maniera organizzata e coordinata e a stabilire strategie e a mettere in atto tattiche. Ciò si rivelò fondamentale per la riuscita, perché la cattura alla quale essa sottrasse i destinatari dell’intervento sarebbe stata portatrice di sofferenza per il presente e di incognite angoscianti per il futuro. Da un lato, il ben noto arbitrio poliziesco nazista per gli interrogatori e, dall’altro, la possibilità di ogni possibile provocazione, volta a costruire un’accusa possibile di spionaggio con conseguente rischio di vita. Rischio che, certamente, incombeva su coloro – donne e uomini –  che erano impegnati nell’accoglienza e nella protezione. Si trattava di rischi che erano ben presenti a tutti coloro che erano impegnati nell’organizzazione, che mostrarono di avere ben salda la convinzione, la coscienza e la responsabilità per il fatto che dall’errore, dalla disattenzione e dalla superficialità di una singola persona sarebbe stato non solo compromesso il lavoro di tutti e di tutte, ma messo a rischio numerose se non tutte le esistenze delle persone coinvolte.
Ma vi era un altro tipo e livello di responsabilità che gravava sulle spalle di quei promotori dell’organizzazione che facevano capo ad organismi ecclesiastici o diplomatici, soprattutto di paesi neutrali. Il loro comportamento doveva restare al di qua di un limite il cui superamento  avrebbe potuto coinvolgere le istituzioni di appartenenza, esponendole alle conseguenze che la violazione delle regole della neutralità comportava. Nel caso dell’organizzazione ecclesiastica il rischio era molto alto: il mancato rispetto delle regole della neutralità poteva essere accampato come pretesto per azioni contro la stessa Santa Sede e i suoi interessi, con sullo sfondo anche l’ipotesi di invasione della Città del Vaticano, con le conseguenze del caso.
C’è da dire che Sam Derry ha l’onestà intellettuale di non nascondere che i rischi forse maggiori all’organizzazione li fecero correre proprio i beneficiari della sua attività. Soprattutto quando con temerarietà si esposero al rischio dell’individuazione e della cattura frequentando luoghi di ritrovo e di divertimento dove la loro presenza poteva essere facilmente notata.
In conclusione, debbo però non tacere un interrogativo – fra tanti –  che a me come ricercatore è sorto abbastanza spontaneo. Mi sono chiesto, infatti, le possibili ragioni per le quali un’organizzazione clandestina abbastanza ramificata ma abbastanza imperfetta e provvisoria nei suoi mezzi e nelle sue strutture non sia incorsa nella rete delle delazioni e delle provocazioni che l’organizzazione poliziesca nazista mise in atto e non sia stata smantellata. La risposta, a mio avviso, dovrebbe essere cercata non solo nella capacità degli interessarsi di sottrarsi al controllo e all’indagine dei loro nemici. Infatti, bisognerebbe considerare con maggiore attenzione – se la documentazione lo permetterà – l’economia dell’azione poliziesca in una realtà così estesa come quella romana, dove il rapporto tra uomini, mezzi ed obiettivi poteva presentare delle sproporzioni. Il compito cui Herbert Kappler e i suoi dipendenti erano preposti era quello della tutela efficace degli interessi e della sicurezza, anzitutto militari, delle forze del Reich a Roma e nell’Italia centrale, e – a parte la cattura e deportazione degli ebrei, che restava un obiettivo comunque per essi fondamentale e imprescindibile – essi impiegavano le loro capacità investigative ed operative in relazione alla pericolosità che attribuivano ai diversi soggetti contro cui dovevano agire. Forse, rispetto ai militari italiani clandestini e ai partigiani, i prigionieri alleati clandestini e fuggiaschi – a meno che fossero inseriti in qualche rete informativa od operativa in collaborazione con essi – rivestivano un grado di pericolosità ritenuto minore e quindi non tale da richiedere l’impiego massiccio di mezzi, risorse umane e attività investigative  per lo smantellamento della rete assistenziale che di essi si occupava. Poteva essere tenuta sotto controllo, salvo colpirla nel momento in cui la pericolosità diretta si fosse manifestata.
Ancor più delle citate memorie di Simpson, questo volume indica come sia ricca la prospettiva di ricerca sull’organizzazione che resta aperta per chi vorrà proseguire sui sentieri dei quali sono state realizzate delle prime tracce. Le disponibilità documentarie negli archivi angloamericani e tedeschi sono notevoli: c’è da augurarsi che anche quelle delle risorse finanziarie possano, in un futuro non lontano, aprirsi per permettere a giovani ricercatori di avviarsi a percorrerli.

Roma, Via Tasso 145, Museo storico della Liberazione

Antonio Parisella